Amore e psiche



Amore e Psiche



Tu sei mia

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Tu sei mia

Agnese si diresse, con passo deciso, al settore della libreria dedicato ai classici e con una rapida occhiata individuò su un ripiano alto il libro che stava cercando. Stese il braccio per tutta la sua lunghezza, cercando allo stesso tempo di mantenere un equilibrio che apparve immediatamente precario. Sfortunatamente, proprio lo sforzo finale, quando già sentiva la punta delle dita toccare la copertina del corposo volume, la fece cadere sugli scaffali sottostanti. Risultato dell'operazione: due ripiani di libri sparpagliati per terra. La cosa più buffa, però, fu che quello che stava tentando affannosamente di prendere, era rimasto dispettosamente al suo posto. Guardò desolata la distesa di volumi sul pavimento e si chinò a raccoglierli senza neanche accorgersi della presenza di un'altra persona, di fianco a lei, che la stava aiutando. Era un ragazzo alto e magro con degli occhialini a montatura tonda. Indossava, con una certa eleganza trascurata, tipica di chi vuol dare di sé l'immagine dell' intellettuale, una giacca di velluto marrone su dei pantaloni chiari e una sciarpa color senape. Agnese allungò la mano e afferrò involontariamente quella di lui. Si alzò di scatto e le cadde tutto di nuovo. Il ragazzo si tirò su, e la guardò con aria divertita.
«Va tutto bene?» chiese.
«Si, scusa. Sono stata una stupida. Non mi aspettavo che ci fosse qualcuno accanto a me» rispose.
Iniziò a giocherellare con i capelli. Un gesto di ingenua civetteria, che represse subito. Lui continuò a fissarla e a sorridere.
«Allora, ti posso aiutare o vuoi fare tutto da sola?» le domandò.
Agnese annuì. Quando il ragazzo ebbe riposto l'ultimo libro, si avvicinò e le porse il volume che lei aveva inutilmente cercato di prendere prima. La giovane ne fu gradevolmente sorpresa, ma fece in modo di non darlo troppo a vedere.
«Non mi sono neanche presentato. Mi chiamo Filippo» disse il giovane.
«Agnese. Grazie per l'aiuto» rispose lei.
Il ragazzo le tese la mano. La stretta di lui, vigorosa senza però eccedere, fu accompagnata da uno sguardo che voleva trasmettere fiducia.
«Come facevi a sapere che stavo cercando proprio questo libro?» gli chiese all'improvviso.
Il giovane rimase in silenzio per qualche istante, trincerandosi dietro un sorriso accattivante.
«Te lo dico se lasci che ti offra un caffè. Altrimenti, rimarrà per sempre un mistero» rispose lui, in tono scherzoso.
Agnese accettò, non tanto per soddisfare la propria curiosità, quanto perché aveva avvertito una specie di brivido nel momento in cui si erano scambiati la prima occhiata, e lei credeva ciecamente nelle sensazioni a pelle. Quella mattina tornò a casa con due cose: il libro e un appuntamento con quel ragazzo, la sera successiva.


La mattina seguente, mentre era sotto la doccia, Agnese sentì suonare alla porta. Cercò di far finta di nulla, ma arrivò una seconda, più intensa scampanellata che non poté ignorare. Quando aprì, si trovò davanti un fattorino, con in mano un mazzo di fiori enorme. Lo prese e vide che non c'era nessun biglietto.
«Sei sicuro che dovevi portarlo qui?» chiese.
Il ragazzo alzò le spalle e senza dire una sola parola, le mostrò un appunto su cui c'era scritto un nome e un indirizzo.
«Eh si. Sono proprio io. Dammi soltanto un attimo» disse.
Lui annuì, muovendo la testa. Tornò dal fattorino dopo qualche istante, con venti centesimi in mano. Il giovane guardò prima la moneta, poi lei.
«Braccine corte, eh?» le disse sarcasticamente.
Lei si sentì punta sul vivo, ma prima che potesse mettere assieme una risposta efficace, il ragazzo se ne era andato via. Braccine corte. Se lo andava ripetendo a bassa voce, mentre si dirigeva in bagno, facendo smorfie che volevano essere la caricatura del fattorino. Stava per rientrare, quando suonò il telefono.
«Uffa. Me la lasciate fare questa benedetta doccia?» esclamò irritata.
Afferrò la cornetta.
«Pronto..» disse.
Ripeté la frase due o tre volte. Dall'altra parte nessun suono.
«Allora, ti vuoi decidere a parlare?» domandò innervosita.
Non avendo ottenuto alcuna risposta, interruppe bruscamente la comunicazione. L'apparecchio squillò ancora, ma lo scrosciare dell'acqua le impedì di sentirlo. Appena fu pronta, uscì. Chiudendo a chiave la porta, notò un biglietto attaccato con del nastro adesivo.
«Spero ti siano piaciuti i fiori..» bisbigliò.


Al posto della firma soltanto una effe maiuscola. Filippo, pensò tra sé. Sorrise compiaciuta. Staccò il foglietto e se lo mise in tasca facendo attenzione a non rovinarlo. Arrivata sulla soglia del portone, rimase un po' delusa nel constatare che lui non era lì ad aspettarla. Provò a cercarlo con lo sguardo, ma del ragazzo nessuna traccia.
«Pazienza. Vorrà dire che aspetterò fino a stasera per vederlo» mormorò.
Rimise le chiavi della macchina nella borsa, e iniziò a incamminarsi a piedi verso l'ufficio. Trovò piacevolmente stravagante questa sua decisione del tutto inconsueta, così come non provò alcun fastidio per la pioggerellina che iniziò lentamente a scendere, senza che lei avesse con sé l'ombrello. Per tutta la giornata ebbe la stranissima sensazione di camminare su un tappeto di nuvole. Fino a che non guardò l'orologio. Le diciotto e trenta. Soltanto due ore all'appuntamento. Elencò mentalmente tutte le cose che andavano assolutamente fatte prima di poter uscire, e le parve di avere davanti una montagna da scalare. Lo sguardo di lui, quando arrivò al locale, la rassicurò che aveva brillantemente raggiunto la vetta.

Tornò a casa a tarda notte. Incontrò quel ragazzo molte altre volte, fino ad arrivare a vederlo tutti i giorni. Si sentì travolta da lui, che ricambiò la sua passione con eguale, se non maggiore, intensità. Sembrava non ci fossero ostacoli alla loro felicità. Per qualche tempo Agnese trovò eccitante, con tutte le sfumature che usa concedersi l'animo femminile in questi casi, non soltanto il suo sentire di appartenergli, ma anche il modo perentorio e assoluto in cui lui lo rivendicava. Poi pian piano le cose iniziarono a cambiare. La meticolosa attenzione che il giovane metteva nel soddisfare tutti i suoi desideri, perfino quelli che lei era sicura di tenere soltanto per sé, cominciò a lasciarle la vaga sensazione di essere in una gabbia dorata. I contatti con le sue amicizie, sia maschili che femminili, presero a diradarsi fino a cessare del tutto. Fu un processo lento ma continuo, di cui Agnese si rese pienamente conto, soltanto col tempo, quando era ormai giunto a conclusione. Lui le aveva fatto terra bruciata intorno, alienandole anche l'affetto delle persone che le erano più intime. Ne ebbe la conferma un sabato mattina. Ritornando dal mercato intravide Carla, la sua migliore amica, che non sentiva ormai da tempo.
«Carla» esclamò, accelerando il passo verso di lei..
La ragazza fece finta di non aver sentito e proseguì a camminare.
«Ehi, Carla» ripeté allora a voce più alta.
L'amica capì che non avrebbe potuto, o forse semplicemente non volle, continuare nel suo atteggiamento d'indifferenza. Sospirò nervosamente. Si girò e aspettò che Agnese le arrivasse di fronte. La giovane si fermò, passò le buste della spesa da una mano all'altra e sorrise, mentre Carla rimase con le labbra serrate, con un'espressione cupa, un misto tra rabbia e delusione. Anche lei allora smise di sorridere.
«Ma che fine hai fatto? E' successo qualcosa?» chiese Agnese sinceramente preoccupata.
«Hai anche il coraggio di chiedermelo..» sibilò irritata l'amica.
«Che cosa intendi dire?» domandò lei.
«Come hai potuto? Io mi fidavo di te..» iniziò l'altra.
Non riuscì a proseguire per la rabbia. Agnese la guardò incredula.
«Ma..» provò a ribattere.
L'altra la zittì sdegnosamente.
«Niente ma. Con quale coraggio hai detto a Lorenzo che non volevo un bambino da lui? Mi ha lasciato. Se ne è andato per colpa tua» disse Carla furibonda.
«Ma che dici. Non mi sarei mai sognata di fare una cosa simile. Per giunta a te che sei la mia migliore amica» disse lei.
«Tu eri l'unica a saperlo oltre me» ribatté l'amica.
«Evidentemente non era così» sentenziò Agnese.
La sicurezza ostentata dalla ragazza irritò ancora di più l'altra.
«Mi ha fatto vedere la mail che gli hai mandato. Fa un favore a tutte e due: non farti più né vedere né sentire» disse, fissandola con uno sguardo gelido.
Agnese non riuscì a dire più nulla. La spesa le cadde dalle mani e non poté far altro che guardare Carla, che per lei era sempre stata come una sorella, andare via velocemente, come se volesse mettere quanta più distanza fosse possibile tra di loro. Riacquistò la calma a poco a poco, non senza fatica, e si avviò lentamente verso casa. Filippo l'aspettava leggendo un quotidiano, seduto sugli scalini accanto al suo appartamento. Il ragazzo, quando vide l'ascensore fermarsi al piano, ripiegò il giornale e si avvicinò. Lei lo salutò con un bacio. Entrarono in casa. Passò qualche minuto nel silenzio più assoluto. All'improvviso la giovane sollevò la testa, colta da un dubbio atroce, che sperò essere soltanto una sua fantasia.
«Amore, ieri non ho potuto controllare le mie mail. Potresti farlo tu, per favore?» esclamò dalla cucina.
«Certo» rispose lui prontamente.
Effettuò le poche operazioni necessarie in breve tempo, e sullo schermo apparve la casella di posta della ragazza. Non c'erano mail da leggere. Si voltò intenzionato a domandare per quale motivo gli avesse chiesto di fare una cosa che, in realtà, aveva già fatto da sé. Agnese era in piedi alle sue spalle e lo fissava.
«Come fai a conoscere la mia password?» gli domandò bruscamente
Filippo cercò di nascondere l'imbarazzo, trincerandosi dietro un sorriso.
«Che ne so. Me l'avrai detta tu» rispose.
«No» ribatté lei duramente.
I due si fissarono per qualche istante senza dire una parola. Filippo tentò di mettere in piedi una spiegazione che potesse essere credibile, ma la ragazza non volle starlo a sentire.
«Vai immediatamente fuori di qui» urlò.
Tentò di convincerla a farlo restare, ma lei si infuriò di più. Cercò di abbracciarla, di baciarla. Agnese si divincolò e lo respinse.
«Non ti avvicinare. Vattene via» disse brandendo un tagliacarte.
Lui fece un passo in avanti e lei, menando fendenti alla cieca, lo ferì leggermente a un braccio. A quel punto il ragazzo desistette. Infilò la giacca e si avviò all'ingresso. Arrivato sulla soglia si arrestò, girandosi verso di lei. La fissò con uno sguardo che le diede i brividi.
«Tu sei mia» le disse e uscì.
Agnese si affrettò a chiudere, girando il chiavistello per maggior sicurezza.
«Tu sei mia , capito? Mia » urlò lui, tirando un pugno contro la porta.
Ne sferrò un secondo e poi un terzo, ripetendo sempre la stessa frase, che echeggiò fin nell'androne, con un suono reso più minaccioso dal rimbombo. La ragazza ne fu sconvolta. Andò alla finestra per controllare che stesse effettivamente andando via. Era in strada e camminava inveendo, come un ossesso. Si voltò ancora un paio di volte, guardando verso di lei con gli occhi pieni d'odio, e poi scomparve dietro l'angolo di un palazzo.

Passò il giorno seguente chiusa in casa. Il mondo fatato in cui aveva creduto di vivere fino a quel momento, non esisteva più. Era crollato come un castello di carte, spazzato via da un semplice soffio di vento. Al suo posto soltanto rovine e solitudine. Non riusciva a perdonarsi di essere stata così cieca e stupida, da lasciarsi manipolare in quel modo. Tentò di mettersi in contatto con Carla, ma come aveva temuto, lei non volle saperne. Questo la rese ancor più depressa e nervosa. Pensò che svuotare il frigorifero potesse essere una buona terapia per tirare su il suo morale, e in effetti l'umore migliorò, seppur in misura inferiore alle aspettative. Arrivò la sera senza che lei se ne accorgesse, tanto era impegnata a compiangersi, nel tentativo immediato di risollevarsi mangiando quantità enormi di cibo. Vinta dalla spossatezza, sull'orlo di una indigestione, si addormentò come un sasso. Un suono ossessionante la costrinse ad aprire gli occhi. Impiegò alcuni secondi a riconoscere la suoneria del suo cellulare. Guardò istintivamente la radio sveglia sul comodino. Erano da poco passate le due. Afferrò il telefonino, e riconoscendo il numero di Filippo non rispose. Tornò il silenzio. Neanche cinque minuti e riprese di nuovo a squillare. Agnese non rispose neanche stavolta. Quando il suono di Badinerie echeggiò nella stanza per la terza volta, agguantò rabbiosamente l'apparecchio.
«Che cosa vuoi?» chiese imbestialita.
«Sei una puttana. Non ti libererai così di me» rispose lui.
Chiuse la comunicazione. Il telefono squillò un'altra volta. Lo ignorò. Per un po'smise, ma poi riprese a suonare insistentemente, a intervalli regolari. Spense per evitare di impazzire. Guardò verso il comodino. Le quattro e un quarto. Snervata, poggiò la testa sul cuscino e si raggomitolò su sé stessa. I dettagli della stanza divennero sempre più indistinti e finalmente il buio la avvolse. La mattina sembrò arrivare in un attimo. Agnese aprì gli occhi qualche minuto prima che suonasse la sveglia. La disattivò. Per un po' rimase a letto, a guardare il soffitto. Quella nottataccia le pesava da morire. Fu tentata di lasciare che le palpebre si chiudessero di nuovo. Che cosa sarebbe stata in fondo un'altra ora? Il pensiero del lavoro la spinse a tirarsi su, sebbene contro voglia. Andò a prepararsi un caffè. Uscì di casa in pochissimo tempo. Arrivata nell'androne, si fermò davanti al pesante portone di legno del palazzo. E se fosse stato lì fuori? Il pensiero la fece rabbrividire. Decise di attendere qualcuno che uscisse insieme a lei. La fortuna fu dalla sua. Nel giro di un paio di minuti udì dei passi per le scale. Come ogni mattina, la signora del primo piano accompagnava a scuola i suoi due bambini prima di andare al lavoro. La donna aprì e fece passare i figli, seguendoli subito dopo, senza neanche salutare. Agnese indugiò un istante sulla soglia. Non c'era nessuno e lei si sentì tremendamente stupida. Stupida e vigliacca. Andò alla macchina, circa cinquanta metri più in là, con passo svelto. Stava per accendere, quando notò qualcosa sul parabrezza. Sulle prime pensò a un biglietto, poi guardando meglio, si accorse che era soltanto un volantino pubblicitario. Tirò un sospiro di sollievo. Abbassò la sicura delle portiere. Girò la chiave ma il motore stentò ad avviarsi e lei colpì il volante stizzita. All'improvviso sentì che qualcuno cercava di aprire lo sportello. Si girò e lui era lì, che la fissava.
«Ti prego scendi» disse Filippo, con voce supplichevole.
Lei non rispose, anzi intensificò i tentativi di accendere l'auto.
«Dammi la possibilità di spiegare. Non mi puoi mollare così» continuò.
Iniziò a battere sul finestrino in modo sempre più rabbioso.
«Scendi ti ho detto. Tu sei mia» urlò.
La macchina ebbe un sussulto e si mise in moto. Agnese diede un colpo di acceleratore e partì di scatto, a retromarcia, senza neanche guardare se ci fosse qualcuno dietro di lei. Urtò contro un'utilitaria che stava arrivando proprio in quel momento. Dalla vettura scese un uomo che, dopo aver dato un'occhiata sommaria alla carrozzeria della propria auto, iniziò a inveire contro Agnese, che invece era rimasta al suo posto, senza avere neanche il coraggio di voltarsi. Filippo si avvicinò e iniziò a insultarlo. I due si spintonarono per un po', minacciandosi a vicenda. Agnese approfittò della situazione e ripartì a razzo. Guardando dallo specchietto retrovisore vide che i due se le stavano dando di santa ragione. Li divideranno, pensò. Dopo qualche centinaio di metri, voltò a destra e scomparve nel flusso caotico del traffico.

Arrivò in ufficio molto scossa, anche se fece di tutto per non darlo a vedere. Un saluto veloce alle colleghe, il tempo di posare le proprie cose, e si infilò nel bagno. Pianse per un po', ma non riuscì a scaricare la tensione come avrebbe voluto. Continuò a sentirsi come una bomba pronta a esplodere. Si buttò a capofitto nel lavoro. All'improvviso il telefono sulla sua scrivania suonò. Lei rimase a fissarlo, mordicchiandosi le labbra. Dopo un certo numero di squilli, le altre persone nella stanza cominciarono a guardarla infastidite.
«Ti vuoi decidere a rispondere?» le disse la ragazza che sedeva proprio di fronte a lei.
Agnese alzò la cornetta.
«Pronto…» disse.
L'esitazione dell'interlocutore, la innervosì. Stava per riappendere, quando dall'altra parte iniziarono a parlare. L'espressione del suo viso si distese a mano a mano che procedeva la conversazione. Trovò anche l'occasione per farsi quattro risate e dimenticare per un po' i suoi problemi. La giornata proseguì, tra gli alti e bassi dovuti alla stanchezza e alla noia, senza eccessivi scossoni. Stava per andar via, quando le si avvicinò la stessa persona che l'aveva rimproverata prima.
«Certo che il tuo fidanzato è proprio un angelo» le disse.
Nello sguardo della ragazza si leggeva chiaramente un pizzico di invidia. Agnese sgranò gli occhi.
«Perché?» chiese, leggermente irritata
«Filippo è di sotto che ti aspetta, con uno splendido mazzo di fiori in mano» rispose l'altra, col tono di chi avrebbe voluto essere al suo posto.
Agnese corse alla finestra e tornò indietro poco dopo, con aria perplessa.
«Ti sei sbagliata. Giù non c'è nessuno» disse.
«Non credo. Era proprio qui di fronte. Si sarà spostato» rimbeccò l'altra acidamente.
Un brivido le percorse la schiena. Andò a sedersi alla scrivania. Rimase assorta, per qualche istante, cercando di raccogliere le idee. Si rese immediatamente conto che la situazione andava risolta in un modo o nell'altro e decise che l'avrebbe affrontato. Una volta per tutte. Uscì dal portone quasi correndo, come se volesse accelerare la conclusione di quella storia. Non vedendolo, si guardò intorno. Filippo sbucò da dietro l'angolo del palazzo e si diresse verso di lei, fermandosi alle sue spalle.
«Ciao» disse all'improvviso.
La ragazza trasalì.
«Ma sei impazzito? A momenti mi facevi prendere un colpo» rispose.
Calò il silenzio. Il nervosismo di entrambi era palpabile.
«Questi sono per te» riprese Filippo.
«Non li voglio» sentenziò Agnese.
«Non fare così. Io lo so che tu mi ami e lo sai anche tu» disse lui.
Il ragazzo le porse di nuovo i fiori ma Agnese li rifiutò.
«Questa storia non può andare avanti» disse lei freddamente.
«Non voglio sentire queste cose. Tu sei mia e mia soltanto» tentò di controbattere lui.
Agnese andò su tutte le furie. Gli strappò il mazzo dalle mani e lo gettò lontano.
«Adesso basta. Non voglio più vederti intorno a me» urlò.
Filippo fu colto di sorpresa dalla reazione della ragazza, ma si riprese subito. Alzò la mano per colpirla ma si bloccò, scaricando poi la propria rabbia contro il finestrino di un'auto parcheggiata lì di fianco. Iniziò a sanguinare. Agnese impallidì. Corse via. Filippo invece rimase immobile.
«Tanto è inutile che scappi» le urlò, mentre si allontanava.
La ragazza arrivò alla macchina tutta trafelata. Non guardò neppure se l'avesse seguita, ma partì immediatamente. Come poteva l'animale sotto l'ufficio, essere la stessa persona che, soltanto qualche giorno prima, la riempiva di attenzioni, ripeteva tra sé. Non riuscì a trovare una risposta adeguata. Le sembrò di impazzire, come se stesse precipitando all'inferno. Ma la cosa peggiore fu il terrore di non poterne uscire.


Proprio come temeva, Filippo non si diede per vinto. L'aspettò all'uscita dal lavoro tutti i giorni, nonostante lei cercasse di andare via in orari sempre diversi, per non incontrarlo. Lui stava lì, appoggiato al muro del palazzo di fronte oppure a una macchina. Con o senza fiori. Tentava di farla ragionare, giurando e spergiurando di essere cambiato e poi, di fronte al suo rifiuto, si lasciava andare a esplosioni di violenza, guardandosi però bene dal toccarla. Non gli importava che ci fosse qualcun altro. Lo faceva e basta. Agnese era terrorizzata. Non riuscì a trovare pace neanche in casa. Il citofono suonava in qualsiasi momento. Giorno o notte non faceva differenza. Filippo passava, con disinvoltura, dal dirle che l'amava e non poteva vivere senza di lei, a insultarla come fosse una donna di strada. Dovette subire anche le lamentele degli altri condomini, infastiditi dal chiasso. Anche il sarcasmo di qualcuno che Filippo aveva avvicinato e istruito a dovere con la sua verità. Ma questo fu il male minore. La situazione cominciò a pesare sul suo rendimento al lavoro. Il capo non vide di buon occhio le continue distrazioni, i ritardi, il malumore che si era creato tra i colleghi, all'inizio comprensivi ma ormai decisamente ostili, e le disse chiaramente che se le cose non fossero cambiate, l'avrebbe licenziata. Già, i colleghi. Come non capirli. Filippo non aveva risparmiato nessuno di loro. A ognuno erano state elargite massicce dosi di insulti e minacce. Era stata messa all'angolo. Sola. Esasperata, pensò di rivolgersi alla polizia.
«Purtroppo in Italia non esiste una legislazione specifica in materia» le disse il poliziotto che l'aveva ricevuta, pregandola di accomodarsi.
«Ma allora io che cosa posso fare?» chiese lei di rimando.
L'uomo esitò un istante. Alzò le braccia, come in segno di resa.
«Noi possiamo intervenire soltanto se lui dovesse farle del male. Che so….assalirla, ferirla..» iniziò a dire.
«Uccidermi» concluse amaramente Agnese.


Il poliziotto la fissò senza aggiungere altro e lei capì di aver fatto un buco nell'acqua. Uscendo dal commissariato vide Filippo a una ventina di metri, vicino a un lampione. Si diresse verso di lui imbestialita.
«Devi lasciarmi in pace bastardo» urlò.
Lui fece finta di cadere dalle nuvole.
«Dici a me? Io me ne sto qui senza dare fastidio a nessuno» disse.
«Sei un pezzo di merda» continuò lei sempre più furiosa.
Alcuni passanti, incuriositi dalle sue grida si fermarono a osservare la scena.
«Ma questa è pazza. Ma che cosa vuole da me?» disse lui cercando con lo sguardo il sostegno dei presenti.
La folla iniziò a rumoreggiare prendendo le parti di Filippo e così ad Agnese non restò che andarsene. Bella pensata che ho avuto, oltre al danno pure la beffa, disse tra sé. Si incamminò verso casa con le lacrime agli occhi per la rabbia e l'umiliazione. Il giorno successivo, dopo le solite telefonate, gli insulti al citofono e averle fatto passare la notte praticamente in bianco, Filippo passò all'attacco e si presentò al suo lavoro. Andò ad aprire una collega. La scostò brutalmente. La porta del suo ufficio si spalancò all'improvviso e lui entrò.


«Io ti amo Agnese e anche tu mi ami. Tu dici di no, ma non è vero» disse in tono fintamente pacato.
Agnese non aprì bocca. Si limitò a fissarlo.
«Avanti dillo. Dillo che anche tu mi ami» urlò.
La ragazza rimase impietrita. Inizio a tremare. Due colleghi si gettarono su di lui.
«Brutta puttana. Perché mi fai questo?» le gridò, tentando di divincolarsi.
Ne ebbero ragione a fatica e finalmente fu sbattuto fuori. La stanza di Agnese sembrava un campo di battaglia. Sedie rovesciate, faldoni sparpagliati un po' dovunque, una stampante a pezzi. Il capo apparve sulla soglia e la guardò con un'espressione che non prometteva nulla di buono. Agnese si alzò e gli andò incontro. Cercava di mettere insieme le parole per limitare i danni, ma non era cosa facile. Proprio mentre stava per iniziare a parlare la finestra fu fracassata da un sasso.
«Puttana» si sentì urlare.
Si affacciarono, ma Filippo era già sparito.


Perdere il lavoro fu per Agnese il colpo di grazia. Restò per giorni e giorni tappata in casa, come un animale nella tana. Il suo appartamento aveva cambiato aspetto e anche lei non sembrava la stessa ragazza. Se ne stava per ore rannicchiata nel letto disfatto. Si alzava soltanto per mangiare. I capelli sudici, spettinati e un cattivo odore che si sentiva anche a distanza, indicavano che non si lavava neanche più. Telefoni staccati, tapparelle abbassate, nessun contatto con l' esterno. Filippo l'aveva annientarla.


Che razza di amore può essere questo, si chiese più volte Agnese, durante i frequenti soliloqui che riempivano le sue giornate nei momenti in cui non si lasciava prendere dal sonno. Non riuscì a darsi una risposta. Riprese i suoi rapporti con il mondo perché il frigorifero era ormai vuoto da almeno due giorni, e lei stava morendo di fame. Il brandello di dignità che le era rimasto le impose di farsi una doccia prima di uscire, per essere almeno presentabile. La disperazione era tale che non si preoccupò neanche che fuori potesse incontrare Filippo, che in ogni caso non aveva mancato di farle sentire la sua presenza dietro la porta o usando il citofono come fosse uno strumento di tortura. Appena fu per la strada, si fermò, chiuse gli occhi un momento e fece un respiro profondo, come se volesse assaporare in una sola volta tutti gli odori da cui si era separata. Era una mattinata splendida. I colori avevano un che di violento, come se il sole riuscisse a renderli più intensi, facendo sentire anche lei, di colpo, nuovamente viva. Fu in quel momento che Agnese capì che doveva andar via di lì, magari per sempre. Non una fuga, ma un nuovo inizio.

Le tende svolazzarono, mosse dalla brezza che arrivava dal mare. Un leggero brivido le percorse la pelle. Aprì gli occhi, rimanendo per un po' a osservare i giochi di luce e ombra che il sole faceva sulla parete. Adorava la domenica. Andò alla finestra e sbirciò fuori. La spiaggia a quell'ora era deserta, soltanto qualche anziano pescatore tra gli scogli. L'acqua appariva immobile, dello stesso blu del cielo, tanto che distinse a fatica l'orizzonte. Si voltò, stirandosi per rimettere in moto tutti i muscoli. Lo sguardo le cadde sullo specchio. Diventi ogni giorno più carina Agnese, disse tra sé. Sorrise.Tutto era nuovo nel monolocale in cui viveva da qualche mese. Il mobilio, i quadri alle pareti. Aveva scelto una tranquilla cittadina sulla costa. Palazzine al massimo di tre piani, gente cordiale. Le era persino tornata la fiducia negli uomini. Anzi, in un uomo in particolare, Nino, un collega assunto anche lui da poco. Non era bello, piuttosto un tipo avrebbe detto, ma con lui si sentiva serena. Il passato non appariva più nei suoi sogni e questo le permetteva di guardare al futuro con un animo diverso. Le rimaneva un solo cruccio. Riprendere i rapporti con Carla. La sua lontananza era una ferita che non voleva saperne di rimarginare. Per questo aveva affidato a un amico comune una lettera in cui le spiegava tutto quello che era accaduto, indicando alla fine il suo nuovo indirizzo e numero di cellulare. Sperava, di più, sentiva che lei avrebbe capito e agito di conseguenza. Aspettava con trepidazione il momento in cui il telefono avrebbe suonato e il suo nome sarebbe apparso sul display. Passata la domenica, un'altra settimana iniziò sotto un cielo cupo per via delle nuvole. Scelse con cura il vestito per andare in ufficio e andò a prepararsi. Un'ultima occhiata allo specchio. Mise a tracollo la borsa e si avvicinò all'uscita. Il cellulare squillò proprio in quel momento. Provò una strana sensazione. Guardò il telefonino e era proprio l'amica. Sorrise. Aprì la porta, tenendo il cellulare vicino all'orecchio.
«Pronto..» disse Carla, emozionata.
Non ci fu alcuna risposta.
«Pronto..» continuò la voce dall'altra parte.
Agnese rimase sulla soglia. Immobile. Chiuse d'istinto la comunicazione. Lo sguardo fisso sulla parete di fronte al suo appartamento. Si poggiò allo stipite. Sentì che le gambe non l'avrebbero sorretta ancora per molto. Non riusciva a credere ai propri occhi. Sul muro, bianco fino alla sera prima, campeggiava una scritta in vernice nera, che lo occupava quasi completamente. Diceva: Tu sei mia. F.

Luciano




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